[Saluti
ai presenti e all’Amministrazione…omissis..]
“Quando il
primo d’ottobre montavamo in carrozza per andare a Monsummano, il pensiero di
passar là cinque settimane mi cagionava una commozione di così acuta dolcezza,
che una volta, tra le canzonature di mio fratello, gli ammonimenti di mia madre
e le risa del cocchiere, sbottai in un pianto dirotto. Ma quanto amare le
lacrime nuove, quando a San Martino si pigliava la via del ritorno! Tutto
un singhiozzo da Monsummano a Firenze…”
Pochi uomini
seppero, come Ferdinando Martini, conciliare spontaneamente l'impegno culturale
e l'impegno civile, per questo ebbe a meritarsi l'appellativo di "uomo
ariostesco" coniato per lui dal critico Guido Mazzoni.
In tal
senso, anche se è sempre un po’ arbitrario stabilire similitudini tra
personaggi di epoche, ambiti e formazioni diverse, in tempi più
vicini a noi, d’acchito, vengono in mente figure che possono in qualche
modo rendere l’idea di quello che fu per i suoi tempi Martini: mi viene ad
es., in mente la figura del romanziere-politico francese Andrè Malraux, oppure
quella di Giovanni Spadolini (tra l’altro uno dei più accreditati studiosi e
biografi di Martini), ma mi rendo conto che rimango ancora su paralleli abbastanza
vaghi,
Martini fu
innanzitutto un letterato che stupisce ancora oggi per la poliedrica
ecletticità della sua produzione che investì i campi più diversi spaziando dal
giornalismo, alla critica letteraria, dal teatro, alla narrativa, dalla
memorialistica, alla biografia, ma fu anche politico e ministro,
africanista, storico del Risorgimento, bibliofilo, entusiasta
ed attento viaggiatore e grande autore di libri di viaggi, insegnante e autore
di libri e antologie per la scuola e tante altre cose ancora, "un
uomo - come ebbe a dire Giovanni Spadolini proprio qui a Monsummano
nell’occasione della riapertura della Villa di Renatico - a cui nessun
orizzonte fu negato, ma che non è possibile catalogare e rinchiudere dentro
nessuna cerchia”. A mio avviso esistono tanti e vari studi specialistici
su alcuni di questi aspetti delle attività Martini, ma manca una moderna
biografia d’insieme [ha recentemente colmato questa lacuna il libro di
Guglielmo Adilardi, Ferdinando Martini: l'uomo, il letterato, il politico,
Giuseppe Laterza, 2011. N.d.A.] e per questo il mio compito di stasera è quello
di introdurre alla sua figura cogliendone un po’ tutti gli aspetti.
Ferdinando
Martini nacque nel 1841 da una colta e signorile famiglia fiorentina che poteva
vantare ministri, dignitari granducali, possedimenti e notevole influenza
in Valdinievole.
Il padre
Vincenzo è un alto funzionario che alterna alle cure di governo quelle
letterarie affermandosi dal 1843 al 1848 in campo teatrale con l’appellativo di
Anonimo Fiorentino.
La madre
Marianna è una marchesa Gerini.
Il giovane
Ferdinando ebbe quindi il privilegio di poter conoscere i personaggi più in
vista della Firenze del tempo e da ciò ne trasse molti insegnamenti, ma chi gli
"fu maestro come gli studi regolari non seppero essere", fu
soprattutto il suo precettore Tommaso Cogo. Passeggiando con lui per
Firenze, Martini si appassionerà alla storia della sua città e maturerà quel
senso profondo di devozione alla Toscana che unito all'amore risorgimentale per
la patria "più grande", l’Italia, lo caratterizzerà sempre, mai
però nel senso di un gretto nazionalismo, poiché la sua formazione culturale,
alimentata dalla passione per i viaggi, spazierà su orizzonti europei e
cosmopoliti.
Tuttavia
"il suo Virgilio", fu l’amico Enrico Nencioni, colui che lo indirizzò
all'amore per le letture, prima odiate, ma che sarebbero poi divenute "il
continuo e il solo indisturbato godimento della sua vita". Con il suo
aiuto inizia gli studi trascorrendo intere giornate nella biblioteca della
villa dello zio Giulio a Monsummano.
Alcune
commedie recitate all'Istituto Rellini insieme ai suoi compagni e vari articoli
di critica letteraria segnano i suoi esordi nell'ambiente culturale cittadino,
mentre è del 1857 la sua prima raccolta di scritti in prosa "Il Giglio
fiorentino".
Primi passi
che rivelano precocità di ingegno unite alla versatilità e varietà di interessi
che sempre lo contraddistingueranno.
Nel 1862
muore il padre Vincenzo, Ferdinando scopre il dissesto patrimoniale della
famiglia, ed indebitato, è costretto a disfarsi dei suoi beni residui (la
famiglia possedeva in Valdinievole ben 14 poderi) dedicandosi
professionalmente alla letteratura drammatica ed all' attività giornalistica e
per un certo periodo all’insegnamento.
Seguendo la
tradizione paterna nello stesso anno comincia a farsi strada nell’ambiente
letterario con un saggio Cenni sul teatro drammatico in Italia e con la
commedia dal titolo proverbiante L’uomo propone e la donna dispone
alla quale seguiranno negli anni successivi Chi sa il gioco l’insegni
(1871), La strada più corta (1873), Il peggior passo è quello
dell’uscio (1873).
La passione
teatrale e l’interesse critico per i problemi del teatro rimarranno
sempre vivi in Martini basterà ricordare solo pochi altri titoli successivi: L’elezione
di un deputato (1875), Fuoco al convento (1894), La vipera
(1894), a cui si aggiunsero numerosi articoli di critica teatrale poi raccolti
nei volumi Di palo in frasca (1891) e Al teatro (1895).
Ma torniamo
al 1863 quando, chiamato dall'amico Piero Puccioni, inizia a collaborare a
"La Nazione".
Tre anni
dopo, nel 1866, sposa finalmente la sua amata Giacinta Marescotti (donna di
grande cultura e ingegno, poi una delle protofemministe italiane) vincendo
l’opposizione del padre di lei il Conte Augusto.
Nel 1869
accetta la nomina per la cattedra di lettere alla Scuola Normale femminile di
Vercelli, mentre nel 1871 passa ad insegnare alla Scuola Normale maschile di
Pisa dove resta fino al 1872 e dove, tra l'altro, ha la rara occasione di
scorgere Giuseppe Mazzini solitario pensionante della famiglia Rosselli.
Di questa
esperienza Martini ci racconta nel secondo volume di Confessioni e ricordi :
“L’ufficio di insegnante, fra i non pochi tenuti in vita mia, è
quello che esercitai con affetto più confidente e più caldo”.
Rapporto
profondo quello di Martini con la scuola, ma anche contraddittorio: la sua
ostilità verso la matematica gli impedirà l’accesso alla carriera
universitaria, ma saprà prendersi la sua rivincita in seguito, divenendo
Segretario generale e poi Ministro della pubblica istruzione nonché autore di
testi ed antologie scolastiche
Prosegue
comunque nella sua attività giornalistica e letteraria, continua a lavorare
oltre che per "La Nazione" , occasionalmente anche, per la "La
Gazzetta del popolo".
Dal 1871 con
gli pseudonimi di Fantasio e Fox pubblica i primi articoli sul
"Fanfulla" un quotidiano, diremmo oggi, politicamente indipendente
che, fondato il 16 giugno 1870 a Firenze da Francesco De Renzis e pubblicato
dal 1871 a Roma in seguito allo spostamento della capitale, si differenzierà
dagli altri quotidiani del tempo per varietà, vivacità e dignità di contenuti,
ma che, dal 1876, si opporrà alla Sinistra, a quella Sinistra storica a cui per
lungo tempo apparterrà lo stesso Martini. Sarà proprio questa svolta a destra
del quotidiano, secondo Martini, a mettere definitivamente in crisi il
giornale.
Sono di
questi anni prose narrative o prose autobiografiche o vagamente evocative come Peccato
e penitenza (1870) Racconti (1870) La marchesa (1872) L’oriolo
(1876), Fra un sigaro e l’altro (1876), alle quali seguiranno
molte altre fino alla vecchiaia come ad es. il noto romanzo breve A
Pieriposa (1922).
Martini nel
1874, ormai gode di larga fama in campo teatrale, artistico e letterario, è
probabilmente il più autorevole giornalista-letterato del momento, un
"opinion-leader", si direbbe oggi, che sa cogliere e
reinterpretare le aspirazioni ed i gusti di un pubblico sempre più crescente di
lettori (e di elettori!).
Inizia così
il suo iter politico che lo porterà a raggiungere posizioni di primo piano.
Accetta
infatti la candidatura che la Sinistra gli offre a Pescia per le elezioni del
novembre di quell'anno e dopo intricate vicissitudini elettorali nel 1876, a 35
anni sotto il primo ministero Depretis entra in Parlamento per rimanervi, come
disse lui, “quaranta cinque anni di seguito”.
Pur
militando per lungo tempo nei banchi della Sinistra parlamentare zanardelliana
Martini sfuggirà sempre a rigide catalogazioni di appartenenza politica come,
appunto, già all'inizio dimostrano i suoi rapporti col "Fanfulla".
Se proprio
vogliamo trovare una definizione per il suo pensiero politico, al di là dell’appartenza
agli schieramenti parlamentari, io direi che è quello di un conservatore
illuminato come, ad esempio, bene ci rivela una sua lettera alla signora
Caterina Pigorini Beri:
“Neanche io
credo all’avvenire delle turbe, o alla intelligenza delle folle, ma credo,
scusi, che il mondo sia piena di ingiustizie e che i socialisti, non si
spaventi, vagheggino uno stato sociale più cristiano; e che cristiani non siano
quei miei colleghi che rivogliono nelle scuole il parroco e la dottrina. Credo
che nell’avvenire si troverà il modo di …fare meno aspre e meno gravi le
disparità delle condizioni economiche. Credo che dovremo farlo noi classi
dirigenti se abbiamo un po’ di cuore e un po’ di senno e un po’ di carità.
…certo non lo si può fare ad un tratto [ma ] possiamo avviarlo, prepararlo, se
no un giorno o l’altro ci impiccheranno e se mi impiccheranno prima di
Rotschild mi dispiacerà perché l’avrò meritato meno di lui. C’impiccheranno
le turbe, le folle inintelligenti? Sì signora, violente, ignoranti,
ma che han diritto di mangiare anche loro, a meno che uno scienziato non trovi
il modo di fare loro lo stomaco diverso dal nostro. E lei che … alla scienza ci
crede, può svagarsi aspettando questa scoperta…Io invece …quella scoperta non
l’aspetto e vorrei che si provvedesse altrimenti. Le perdono vede un po’ tutte
le sue infedeltà che mi ha fatto, ma non le perdono d’essere una così
arrabbiata conservatrice.”
Nel 1879
crea e dirige il supplemento letterario di quel quotidiano, il poi famoso
"Fanfulla della domenica", primo settimanale di respiro nazionale con
cui entreranno via in contatto tutti i letterati del tempo (1879-1919) dal
Carducci al D’Annunzio.
Nel 1881
Martini lascia la direzione del settimanale all'Avanzini e fonda "La
Domenica letteraria" e poi il "Giornale per i bambini" su cui
Collodi pubblica a puntate a partire dal 7 luglio 1881 la sua Storia di un
burattino, il celebre capolavoro Pinocchio.
Così Martini
ricorda Collodi (1826-1890): “Carlo Lorenzini tornò a Firenze dalla guerra
nell’agosto del ’48 mazziniano sfegatato; e, nei mesi che corsero
dall’Armistizio di Salasco alla battaglia di Novara, fu dei più operosi fra gli
scrittori di giornali democratici: articoli al “Lampione”, prose e versi al
“Nazionale”: versi non da antologie, ma nei quali la delusione irosa e
l’affanno si sfogavano insieme…Avvenuta la restaurazione men sospetto di
[altri] poté pubblicare a dirigere l’un dopo l’altro giornali anche lui
[…] l’andare in cerca affannata di qualche centinaio di lire appena levato il
sole, fu il molto frequente assillato travaglio del Lorenzini […] Giocava
ovunque si giocasse […] ogni sera, ogni notte […] E poiché era lecito giocare e
perdere sulla parola di qui le ansie notturne del Lorenzini e l’affannato
mattutino cercare dell’amico o dell’usuraio e quando l’amico non poteva o
l’usuraio non voleva, ultima ratio, …l’impresario che comprasse il
giornale, il tipografo che fornisse il danaro occorrente a saldare la perdita
della sera innanzi, ipotecandolo da un lavoro di là da venire. Così furono
venduti l’ “Arte” e lo “Scaramuccia”. Così nacquero la Guida in vapore da
Firenze a Livorno, così la commedia Gli amici di casa, così il
romanzo I Misteri di Firenze e altri scritti dimenticati e dimenticabili
del Lorenzini. Ci volle la rivoluzione del ’59: la guerra, strappandoli
all’ambiente viziato, salvò alcuni…che stavano sull’orlo del precipizio…Il
Lorenzini nominato dal Governo della Toscana censore teatrale …le carte non le
toccò più e destatosi più tardi alla impreveduta vocazione di gaio educatore,
accoppiò il nome del paesello natale – Collodi – a quel di
Pinocchio e li fece ambedue cari ai ragazzi d’Italia, che tutt’ora onorano con
affetto la memoria di lui.”
Nel 1884
Martini diviene sottosegretario alla Pubblica Istruzione di cui sarà Ministro
nel 1892/93, durante il primo Governo di Giovanni Giolitti (1842-1928).
La breve e
travagliata vicenda di quel Governo non diede tempo a Martini di avviare il suo
serio programma di rinnovamento dell' Università che, scontrandosi con
consolidati interessi clientelari, prevedeva, tra l'altro, la riduzione e il
rammodernamento delle sedi accademiche.
Di tale
coraggioso progetto (si inimicò tra l’altro tutta Siena, volendone abolire
l’Università!) rimarrà traccia in due articoli pubblicati dalla "Nuova
Antologia" del marzo-aprile 1884.
La passione
di erudito e la curiosità intellettuale portarono Martini, a studiare con
serietà e competenza anche i problemi dell'Africa divenendone il maggior
esperto parlamentare. Fu così che venne nominato Vicepresidente di una
Commissione d'inchiesta inviata in Eritrea per esaminare il comportamento
scorretto di alcuni funzionari governativi e che pubblicò il libro Nell'Affrica
Italiana, intenso e suggestivo resoconto dei suoi appunti di viaggio.
Fu poi dal
1897 al 1907 Governatore dell'Eritrea, ma senza interrompere il suo lavoro
intellettuale, alternando i rapporti sulla Colonia con gli studi su Giuseppe
Giusti (1809-1850), di cui fu il maggiore storico, malgrado che, nel tempo, fra
le due famiglie, tra le preminenti in Valdinievole, sembra fosse intercorso
qualche dissapore. (cfr. Luigi Angeli, Lettere familiari edite e inedite)
Nel 1904
pubblicherà infatti la prima edizione in tre volumi dell’Epistolario, ma
non abbandonerà mai questi studi tanto che la sua raccolta di Tutti gli scritti
editi ed inediti venne poi pubblicata in quattro volumi da Barbèra nel
’24.
Scriverà
Martini: «Reverenza maggiore avrebbe dovuto ispirarmi il Giusti quando, e
un’unica volta, lo vidi, ma non fu così. Aveva pubblicato allora-allora il Congresso
dei Birri e in casa ne sentivo spesso recitare degli squarci: non
capivo nulla s’intende, ma m’ero convinto che quella, per consenso di
tutti, era una bella cosa, e chi l’aveva fatta un poeta co’ fiocchi. Smaniavo
di vederlo, quand’eccoti una bella sera capita tutto frettoloso nello studio di
mio padre; m’aspettavo dicesse Dio sa che; domandò (mi suona ancora la voce
negli orecchi): “A pranzo in casa Gerini ci si va con la cravatta bianca o con
la cravatta nera?” - Bianca - gli risposero: e allora, appoggiato al
caminetto, cominciò a tirarsi i baffi verso il labbro inferiore, borbottò due o
tre volte quasi piagnucolando: “O Santo Iddio, o Santo Iddio, la cravatta
bianca!” poi ammutolì, e di lì a cinque minuti se ne andò frettoloso com’era
venuto. Non me ne seppi dar pace, che un celebre poeta …dicesse quel che avrei
potuto dire anch’io… e fu impressione così viva e durevole quella che …le
simpatie per il Giusti non si destarono se non tardi, non potevo prendere in
mano il volume de’ suoi versi, senza riveder lui a quel caminetto tirarsi muto
i mustacchi, né gli sapevo perdonare quella mia delusione infantile. »
Più
tagliente il giudizio di Martini sul padre del poeta, Domenico Giusti:
“…ricordo - scrive Martini nel vol. 4 dell’Epistolario – d’averlo visto
io, giovinetto, scodinzolare grigio vestito, ilare e svelto per la piazza di
Monsummano; e ricordo le meraviglie altrui nel mirare tanta giocondità di
spirito in chi aveva perduto da poco l’unico figliuolo maschio…” - era
quest’uomo, che pure in Montecatini esercitava un notevole potere,
un - “ peccatore impenitente, vagheggino ripicchiato e straniato,
argomento alle facezie e alle canzonette popolari, [che] morì serenamente
lasciando scarso rimpianto fra i conterranei e nel guardaroba centodieci
paia di pantaloni.”
Tuttavia
Martini malgrado la non eccessiva simpatia personale per la famiglia Giusti, dà
un giudizio sostanzialmente positivo dell’indole creativa del poeta superando la
precedente critica risorgimentale che, valutando negativamente l’involuzione
politica degli ultimi anni del Giusti, finiva per svalutarne tutta l’opera.
La linea
interpretativa martiniana è per la totale autonomia del prodotto artistico
rispetto ai limiti politico-morali del Giusti. Più che giudicare Martini cerca
di esaminare e capire l’autore inserendolo in un preciso contesto
socio-culturale. In tal senso la critica martiniana precorre lo storicismo
critico più recente sul Giusti dal Sapegno, al Baldacci, al Nicoletti.
Ma torniamo
all’Eritrea: di quell'esperienza ci rimangono i quattro volumi del Diario
Eritreo pubblicati postumi.
Scriverà
allora acutamente Martini: «"In Africa ci siamo andati, senza saper bene
il perché, ci siamo voluti restare per consenso quasi universale, quando era
tempo di venirsene con danno minore; ora io, che pur così ripetutamente e
vanamente domandai si richiamassero dalle coste del mar Rosso i nostri soldati,
io, per il primo, confesso che il dar le spalle al mar Rosso oggi non è più
possibile, senza disdoro infinito, perpetuo. Ma, se col mutare degli eventi e
de' tempi, muta la ragione politica, la ragione morale rimane qual era; ed io
non so rassegnarmi a credere che vi siano due giustizie, una bianca e una nera,
due diritti, uno bianco e uno nero; nella pochezza mia non arrivo ad intendere
con che cuore noi che per secoli patimmo e lamentammo il giogo, andiamo ora ad
imporlo. Ma noi siamo eclettici: richiediamo l'Isonzo e pigliamo il Mareb.
Quando mi provo a dirlo, mi rispondono con un'alzata di spalle: "coteste
sono idee da secolo decimottavo". Me ne rincresce per il decimonono."
»
Tuttavia,
studi recenti hanno sfrondato alcuni miti, sorti prima e durante il fascismo,
circa il Governatorato di Martini. Martini in realtà non fu né il salvatore
della colonia Eritrea contro un governo (Giolitti) che avrebbe voluto
disfarsene, né il suo valorizzatore economico, nè il colonialista
"buono" particolarmente attento alle esigenze dei nativi e nemmeno il
precursore dell'Impero fascista.
Arrivato in
Eritrea appena dopo la disfatta di Adua, Martini facendo ricorso al buonsenso
di conservatore illuminato che sempre lo contraddistinguerà, salvò (e conservò)
il salvabile, opponendosi alle velleità dei militari che cercavano l'incidente
per riaprire sconsideratamente la partita e lasciò sostanzialmente la strada
aperta per successive espansioni.
Nel 1908,
ormai insofferente del suo ruolo "africano", riuscì a tornare, anche
contro la volontà di Giolitti, in Italia.
Per inciso
tra Giolitti e Martini non corse mai buon sangue: troppo "politico" e
rigidamente "piemontese" l'uno, gran signore toscano l'altro,
intellettuale rigoroso e colto, ma anche ironico e disincantato, tanto da
definire, ad esempio, lo statista di Mondovì come "un carabiniere
travestito da guardia di pubblica sicurezza in borghese". Giolitti gliela
farà poi pagare nel 1919 rifiutandosi di nominarlo senatore.
Deluso della
politica e dai politici, Martini si ritira a Monsummano nella quiete della sua
prediletta Valdinievole per attendere ai suoi studi ed ai suoi scritti.
Alla vigilia
della prima guerra mondiale torna alla politica avvicinandosi decisamente allo
schieramento conservatore: Ministro delle Colonie nel Governo di Antonio
Salandra (1853-1931), fu risoluto interventista a fianco della Francia. Una
scelta forse dettata da: spirito irredentista risorgimentale,
(Isonzo-Mareb), dalla predilezione per la cultura francese, ma, concretamente
motivata da mire egemonistiche verso l'area balcanica e centroeuropea.
(Stefanik)
Da questi
anni nasce il Diario 1914-1918 opera importantissima dal punto l’altra
pubblicazione di vista storico, ed anche molto interessante per la spontaneità
della stesura in quanto non destinata nelle sue intenzioni alla pubblicazione.
Curata da
Gabriele De Rosa verrà edita dalla Mondadori nel 1966 affiancando l’altra opera
postuma, l’Epistolario 1860-1928, già uscita, sempre per Mondatori, nel
1934.
Il suo Diario
ci rivela, tra l'altro, che in sostanza furono Martini e Salandra a decidere a
Frascati il 17 settembre 1914 la linea di condotta che porterà all'entrata in
guerra dell'Italia contro l'Austria.
I turbolenti
anni del dopoguerra, l'esplodere della lotta di classe, videro la fine del
vecchio sistema politico fondato sul prestigio personale (collegio uninominale)
sancita anche in Valdinievole, nelle elezioni del 1919, le prime tenutesi col
"proporzionale", dalla sconfitta degli esponenti più
rappresentativi del liberalismo: Martini non venne rieletto e amareggiato tornò
a vita privata.
Preso di
mira, anche fisicamente, come "guerrafondaio" Martini,
amaramente si diffonde nelle sue lettere sulle accuse che nella “sua” Val di
Nievole gli vengono rivolte ed in una lettera a Laura Cipriani del 12 settembre
1919 scrive: “…i miei si sono sempre
adoperati per il bene di questo paese, io l’ho rappresentato in parlamento per
42 anni, e credo non indegnamente, ciò che di meno male ho scritto è tutto
datato da Monsummano; qui ho deposto i più cari ricordi, qui sono sepolti mio
padre a mia madre; qui mi preparavo ad istituire un museo civico a
raccogliere cimeli paesani, i manoscritti del Carli, del Giusti e via
dicendo…Tutto mi potevo aspettare fuor che vedermi questo paese nemico,
le gente ostentare il negato saluto e gridare contro di me vituperi” ed
aggiunge nella lettera d’addio ai suoi elettori datata 15 novembre 1919:
"della guerra tutti soffrimmo…la guerra è calamità e, se voluta
significa averla desiderata, codesta è calunnia…la guerra fu voluta e
iniziata dalla Germania e dall’Austria, per noi fu una
necessità.”
Sono tempi
questi che il Martini, per sua natura portato al disincanto ed alla
moderazione, alieno da qualsiasi estremismo non sa, né forse vuole
comprendere o approvare, ma in fondo era facile per lui, che era ricco, essere moderato e
superiore alle passioni, ma di ciò lui stesso se ne rendeva conto come abbiamo visto nella
lettera alla Pigorini-Beri.
Ulteriormente
allarmato per la svolgersi degli avvenimenti durante il
"biennio-rosso", Martini, come del resto altri esponenti della classe
politica liberale del tempo, finì per vedere nell'affermarsi del fascismo
l'unico argine al "disordine" montante.
Non risulta
che aderisse al movimento, come il Regime dopo la sua morte volle far apparire,
ma ne fu un autorevole fiancheggiatore ed il fascismo gli fu riconoscente
nominandolo Senatore nel marzo 1923 e Ministro di Stato nel 1927 ed a chi gli
chiedeva quali vantaggi comportasse quest’ultima carica Martini rispondeva:
“…vantaggi? Uhm: ho il diritto di essere chiamato Eccellenza; lo scompartimento
riservato e di questo non potrò usufruirne perché in treno non ci vo più,
e poi una cosa della quale certo usufruirò …i funerali a spese dello Stato.”
Gli ultimi
anni di Martini tuttavia furono infatti dedicati allo studio piuttosto che
all’attività politica. Ormai anziano, rifugiatosi nella sua villa di
Monsummano, trascorse le giornate nella sua ricchissima biblioteca raccontando
cinquant'anni di vicissitudini personali (e di storia del Paese) nelle due
raccolte di Confessioni e ricordi, ritenute dalla critica la sua opera migliore
di grande memorialista.
In
quest’opera matura Martini mostra in pieno uno stile leggero e agevole
(ottenuto nel tempo, come ebbe a dire, “per energica conquista”) in cui possono
pienamente e piacevolmente dispiegarsi la sua naturale ironia e arguzia, il
garbo, il tutto unito ad una preziosa dovizia d’informazioni.
Deliziosi i
suoi quadretti sul ministro granducale Baldasseroni, da lui definito “Sua
Baldanza Eccellenzoni”, su Leopoldo II, sul Guadagnoli, e su Salvagnoli,
Rossini, Depretis, sui i giorni del 27 aprile, sulla fiacca volontà
dei… volontari… soldati toscani partiti per il Nord per partecipare alla Guerra
del ’59, ecc.
Scrisse
anche altre opere, tornò a lavorare sull’Epistolario del Giusti ed
intraprese, in questa che possiamo considerare come una “ricerca del tempo
perduto", anche l'opera di ordinamento delle carte appartenute alla sua
famiglia. Fra il materiale polveroso pervenutogli - al quale nessuno mai, a
quanto pare, tentò prima di lui di dare un ordine - vi erano perfino documenti
risalenti alla fine del XVI secolo; potè scoprire anche la storia d’amore con
Stendhal della zia Giulia Rinieri de’ Rocchi, cugina e moglie dello zio
Giulio.
L'arco
cronologico di questo archivio si chiude proprio con la morte di Martini
avvenuta a Monsummano il 24 aprile del 1928.
Gli eredi
vendettero la sua ricchissima biblioteca, ricca di circa 15.000 volumi e 12.000
opuscoli, giornali toscani, edizioni originali, cinquecentine, codici etiopici,
alla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia che l'affidò alla Biblioteca
Forteguerriana di Pistoia alla quale con il 1971 furono formalmente donata e di
cui adorna, anche nelle sue suggestive strutture in legno, di recente
ricondotte alla disposizione originale, la Sala V.
Carlo Onofrio Gori
*
Conferenza tenuta da Carlo O. Gori a Monsummano Terme il 27.02.2003
vd. anche: http://goriblogstoria.blogspot.it/2011/12/carlo-onofrio-gori-risorgimento-storia.html
http://historiablogoriarchiviosplinder-cog.blogspot.it/2012/01/storia-ferdinando-martini-1841-1928.html
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