giovedì 2 maggio 2013

C.O. Gori. Vita di Ferdinando Martini (1841-1928)



Vita di Ferdinando Martini (1841-1928) *




[Saluti ai presenti e all’Amministrazione…omissis..]

“Quando il primo d’ottobre montavamo in carrozza per andare a Monsummano, il pensiero di passar là cinque settimane mi cagionava una commozione di così acuta dolcezza, che una volta, tra le canzonature di mio fratello, gli ammonimenti di mia madre e le risa del cocchiere, sbottai in un pianto dirotto. Ma quanto amare le lacrime nuove, quando a San Martino si pigliava la via del ritorno!  Tutto un singhiozzo da Monsummano a Firenze…”   
Pochi uomini seppero, come Ferdinando Martini, conciliare spontaneamente l'impegno culturale e l'impegno civile, per questo ebbe a meritarsi l'appellativo di "uomo ariostesco" coniato per lui dal critico Guido Mazzoni.
In tal senso, anche se è sempre un po’ arbitrario stabilire similitudini tra personaggi di epoche, ambiti  e formazioni diverse,  in tempi più vicini a noi, d’acchito,  vengono in mente figure che possono in qualche modo rendere l’idea di quello che fu per i suoi tempi Martini: mi viene ad es., in mente la figura del romanziere-politico francese Andrè Malraux, oppure quella di Giovanni Spadolini (tra l’altro uno dei più accreditati studiosi e biografi di Martini), ma mi rendo conto che rimango ancora su paralleli abbastanza vaghi,
Martini fu innanzitutto un letterato che stupisce ancora oggi per la poliedrica ecletticità della sua produzione che investì i campi più diversi spaziando dal giornalismo, alla critica letteraria, dal teatro, alla narrativa, dalla memorialistica, alla biografia,  ma fu anche politico e ministro, africanista,  storico del Risorgimento,  bibliofilo,  entusiasta ed attento viaggiatore e grande autore di libri di viaggi, insegnante e autore di libri e antologie per la scuola e tante altre cose ancora, "un uomo  - come ebbe a dire Giovanni Spadolini proprio qui a Monsummano nell’occasione della riapertura della Villa di Renatico - a cui nessun orizzonte fu negato, ma che non è possibile catalogare e rinchiudere dentro nessuna cerchia”. A mio avviso esistono tanti e vari  studi specialistici su alcuni di questi aspetti delle attività Martini, ma manca una moderna biografia d’insieme  [ha recentemente colmato questa lacuna il libro di Guglielmo Adilardi, Ferdinando Martini: l'uomo, il letterato, il politico, Giuseppe Laterza, 2011. N.d.A.] e per questo il mio compito di stasera è quello di introdurre alla sua figura cogliendone  un po’ tutti gli aspetti.
Ferdinando Martini nacque nel 1841 da una colta e signorile famiglia fiorentina che poteva vantare ministri, dignitari granducali,  possedimenti e notevole influenza in  Valdinievole.
Il padre Vincenzo è un alto funzionario che alterna alle cure di governo quelle letterarie affermandosi dal 1843 al 1848 in campo teatrale con l’appellativo di Anonimo Fiorentino.
La madre Marianna è una marchesa Gerini. 
Il giovane Ferdinando ebbe quindi il privilegio di poter conoscere i personaggi più in vista della Firenze del tempo e da ciò ne trasse molti insegnamenti, ma chi gli "fu maestro come gli studi regolari non seppero essere", fu soprattutto il suo precettore Tommaso Cogo.  Passeggiando con lui per Firenze, Martini si appassionerà alla storia della sua città e maturerà quel senso profondo di devozione alla Toscana che unito all'amore risorgimentale per la patria "più grande", l’Italia,  lo caratterizzerà sempre, mai però nel senso di un gretto nazionalismo, poiché la sua formazione culturale, alimentata dalla passione per i viaggi, spazierà su orizzonti europei e cosmopoliti.
Tuttavia "il suo Virgilio", fu l’amico Enrico Nencioni, colui che lo indirizzò all'amore per le letture, prima odiate, ma che sarebbero poi divenute "il continuo e il solo indisturbato godimento della sua vita". Con il suo aiuto inizia gli studi trascorrendo intere giornate nella biblioteca della villa dello zio Giulio a Monsummano.
Alcune commedie recitate all'Istituto Rellini insieme ai suoi compagni e vari articoli di critica letteraria segnano i suoi esordi nell'ambiente culturale cittadino, mentre è del 1857 la sua prima raccolta di scritti in prosa "Il Giglio fiorentino".
Primi passi che rivelano precocità di ingegno unite alla versatilità e varietà di interessi che sempre lo contraddistingueranno.
Nel 1862 muore il padre Vincenzo, Ferdinando scopre il dissesto patrimoniale della famiglia, ed indebitato, è costretto a disfarsi dei suoi beni residui (la famiglia possedeva in Valdinievole ben 14 poderi)  dedicandosi professionalmente alla letteratura drammatica ed all' attività giornalistica e per un certo periodo all’insegnamento.
Seguendo la tradizione paterna nello stesso anno comincia a farsi strada nell’ambiente letterario con un saggio Cenni sul teatro drammatico in Italia e con la commedia dal titolo proverbiante L’uomo propone e la donna dispone  alla quale seguiranno negli anni successivi Chi sa il gioco l’insegni  (1871), La strada più corta (1873), Il peggior passo è quello dell’uscio (1873).
La passione teatrale e l’interesse critico  per i problemi del teatro rimarranno sempre vivi in Martini basterà ricordare solo pochi altri titoli successivi: L’elezione di un deputato (1875), Fuoco al convento (1894), La vipera (1894), a cui si aggiunsero numerosi articoli di critica teatrale poi raccolti nei volumi Di palo in frasca (1891) e Al teatro (1895).
Ma torniamo al 1863 quando, chiamato dall'amico Piero Puccioni, inizia a collaborare a "La Nazione".
Tre anni dopo, nel 1866, sposa finalmente la sua amata Giacinta Marescotti (donna di grande cultura e ingegno, poi una delle protofemministe italiane) vincendo l’opposizione del padre di lei il Conte Augusto.
Nel 1869 accetta la nomina per la cattedra di lettere alla Scuola Normale femminile di Vercelli, mentre nel 1871 passa ad insegnare alla Scuola Normale maschile di Pisa dove resta fino al 1872 e dove, tra l'altro, ha la rara occasione di scorgere Giuseppe Mazzini solitario pensionante della famiglia Rosselli.
Di questa esperienza Martini ci racconta nel secondo volume di Confessioni e ricordi : “L’ufficio di insegnante,  fra i non pochi tenuti in vita mia,  è quello che esercitai con affetto più confidente e più caldo”.
Rapporto profondo quello di Martini con la scuola, ma anche contraddittorio: la sua ostilità verso la matematica gli impedirà l’accesso alla carriera universitaria, ma saprà prendersi la sua rivincita  in seguito, divenendo Segretario generale e poi Ministro della pubblica istruzione nonché autore di testi ed antologie scolastiche
Prosegue comunque nella sua attività giornalistica e letteraria, continua a lavorare oltre che per "La Nazione" , occasionalmente anche, per la "La Gazzetta del popolo".
Dal 1871 con gli pseudonimi di Fantasio e Fox pubblica i primi articoli sul "Fanfulla" un quotidiano, diremmo oggi, politicamente indipendente che, fondato il 16 giugno 1870 a Firenze da Francesco De Renzis e pubblicato dal 1871 a Roma in seguito allo spostamento della capitale, si differenzierà dagli altri quotidiani del tempo per varietà, vivacità e dignità di contenuti, ma che, dal 1876, si opporrà alla Sinistra, a quella Sinistra storica a cui per lungo tempo apparterrà lo stesso Martini. Sarà proprio questa svolta a destra del quotidiano, secondo Martini, a mettere definitivamente in crisi il giornale.
Sono di questi anni prose narrative o prose autobiografiche o vagamente evocative come Peccato e penitenza (1870) Racconti (1870)  La marchesa (1872) L’oriolo (1876), Fra un sigaro e l’altro (1876), alle quali seguiranno  molte altre  fino alla vecchiaia come ad es. il noto romanzo breve A Pieriposa (1922). 
Martini nel 1874, ormai gode di larga fama in campo teatrale, artistico e letterario, è probabilmente il più autorevole giornalista-letterato del momento, un "opinion-leader", si direbbe oggi,  che sa cogliere e reinterpretare le aspirazioni ed i gusti di un pubblico sempre più crescente di lettori (e di elettori!).
Inizia così il suo iter politico che lo porterà a raggiungere posizioni di primo piano.
Accetta infatti la candidatura che la Sinistra gli offre a Pescia per le elezioni del novembre di quell'anno e dopo intricate vicissitudini elettorali nel 1876, a 35 anni sotto il primo ministero Depretis entra in Parlamento per rimanervi, come disse lui, “quaranta cinque anni di seguito”.
Pur militando per lungo tempo nei banchi della Sinistra parlamentare zanardelliana Martini sfuggirà sempre a rigide catalogazioni di appartenenza politica come, appunto, già all'inizio dimostrano i suoi rapporti col "Fanfulla".
Se proprio vogliamo trovare una definizione per il suo pensiero politico, al di là dell’appartenza agli schieramenti parlamentari, io direi che è quello di un conservatore illuminato come, ad esempio, bene ci rivela una sua lettera alla signora Caterina Pigorini Beri:
“Neanche io credo all’avvenire delle turbe, o alla intelligenza delle folle, ma credo, scusi, che il mondo sia piena di ingiustizie e che i socialisti, non si spaventi, vagheggino uno stato sociale più cristiano; e che cristiani non siano quei miei colleghi che rivogliono nelle scuole il parroco e la dottrina. Credo che nell’avvenire si troverà il modo di …fare meno aspre e meno gravi le disparità delle condizioni economiche. Credo che dovremo farlo noi classi dirigenti se abbiamo un po’ di cuore e un po’ di senno e un po’ di carità. …certo non lo si può fare ad un tratto [ma ] possiamo avviarlo, prepararlo, se no un giorno o l’altro ci impiccheranno e se mi impiccheranno prima di Rotschild mi dispiacerà perché l’avrò meritato meno di lui. C’impiccheranno le turbe, le folle inintelligenti?   Sì signora, violente, ignoranti, ma che han diritto di mangiare anche loro, a meno che uno scienziato non trovi il modo di fare loro lo stomaco diverso dal nostro. E lei che … alla scienza ci crede, può svagarsi aspettando questa scoperta…Io invece …quella scoperta non l’aspetto e vorrei che si provvedesse altrimenti. Le perdono vede un po’ tutte le sue infedeltà che mi ha fatto, ma non le perdono d’essere una così arrabbiata conservatrice.”   
Nel 1879 crea e dirige il supplemento letterario di quel quotidiano, il poi famoso "Fanfulla della domenica", primo settimanale di respiro nazionale con cui entreranno via in contatto tutti i letterati del tempo (1879-1919) dal Carducci al D’Annunzio.
Nel 1881 Martini lascia la direzione del settimanale all'Avanzini e fonda "La Domenica letteraria" e poi il "Giornale per i bambini" su cui Collodi pubblica a puntate a partire dal 7 luglio 1881 la sua Storia di un burattino, il celebre capolavoro Pinocchio.
Così Martini ricorda Collodi (1826-1890): “Carlo Lorenzini tornò a Firenze  dalla guerra nell’agosto del ’48 mazziniano sfegatato; e, nei mesi che corsero dall’Armistizio di Salasco alla battaglia di Novara, fu dei più operosi fra gli scrittori di giornali democratici: articoli al “Lampione”, prose e versi al “Nazionale”: versi non da antologie, ma nei quali la delusione irosa e l’affanno si sfogavano insieme…Avvenuta la restaurazione men sospetto di [altri] poté pubblicare a dirigere l’un dopo l’altro giornali anche lui  […] l’andare in cerca affannata di qualche centinaio di lire appena levato il sole, fu il molto frequente assillato travaglio del Lorenzini […] Giocava ovunque si giocasse […] ogni sera, ogni notte […] E poiché era lecito giocare e perdere sulla parola di qui le ansie notturne del Lorenzini  e l’affannato mattutino cercare dell’amico o dell’usuraio e quando l’amico non poteva o l’usuraio non voleva, ultima ratio, …l’impresario che comprasse  il giornale, il tipografo che fornisse il danaro occorrente a saldare la perdita della sera innanzi, ipotecandolo da un lavoro di là da venire. Così furono venduti l’ “Arte” e lo “Scaramuccia”. Così nacquero la Guida in vapore da Firenze a Livorno, così la commedia Gli amici di casa, così il romanzo I Misteri di Firenze e altri scritti dimenticati e dimenticabili del Lorenzini. Ci volle la rivoluzione del ’59: la guerra, strappandoli all’ambiente viziato, salvò alcuni…che stavano sull’orlo del precipizio…Il Lorenzini nominato dal Governo della Toscana censore teatrale …le carte non le toccò più e destatosi più tardi alla impreveduta vocazione di gaio educatore, accoppiò il nome del paesello natale  – Collodi  – a quel di Pinocchio e li fece ambedue cari ai ragazzi d’Italia, che tutt’ora onorano con affetto la memoria di lui.”
Nel 1884 Martini diviene sottosegretario alla Pubblica Istruzione di cui sarà Ministro nel 1892/93, durante il primo Governo di Giovanni Giolitti (1842-1928).
La breve e travagliata vicenda di quel Governo non diede tempo a Martini di avviare il suo serio programma di rinnovamento dell' Università che, scontrandosi con consolidati interessi clientelari, prevedeva, tra l'altro, la riduzione e il rammodernamento delle sedi accademiche.
Di tale coraggioso progetto (si inimicò tra l’altro tutta Siena, volendone abolire l’Università!) rimarrà traccia in due articoli pubblicati dalla "Nuova Antologia" del marzo-aprile 1884.
La passione di erudito e la curiosità intellettuale portarono Martini, a studiare con serietà e competenza anche i problemi dell'Africa divenendone il maggior esperto parlamentare. Fu così che venne nominato Vicepresidente di una Commissione d'inchiesta inviata in Eritrea per esaminare il comportamento scorretto di alcuni funzionari governativi e che pubblicò il libro Nell'Affrica Italiana, intenso e suggestivo resoconto dei suoi appunti di viaggio.
Fu poi dal 1897 al 1907 Governatore dell'Eritrea, ma senza interrompere il suo lavoro intellettuale, alternando i rapporti sulla Colonia con gli studi su Giuseppe Giusti (1809-1850), di cui fu il maggiore storico, malgrado che, nel tempo, fra le due famiglie, tra le preminenti in Valdinievole, sembra fosse intercorso qualche dissapore. (cfr. Luigi Angeli, Lettere familiari edite e inedite)
Nel 1904 pubblicherà infatti la prima edizione in tre volumi dell’Epistolario, ma non abbandonerà mai questi studi tanto che la sua raccolta di Tutti gli scritti editi ed inediti  venne poi pubblicata in quattro volumi da Barbèra nel ’24. 
Scriverà Martini: «Reverenza maggiore avrebbe dovuto ispirarmi il Giusti quando, e un’unica volta, lo vidi, ma non fu così. Aveva pubblicato allora-allora il Congresso dei Birri e in casa  ne sentivo spesso recitare degli squarci: non capivo nulla s’intende, ma m’ero convinto che quella,  per consenso di tutti,  era una bella cosa, e chi l’aveva fatta un poeta co’ fiocchi. Smaniavo di vederlo, quand’eccoti una bella sera capita tutto frettoloso nello studio di mio padre; m’aspettavo dicesse Dio sa che; domandò (mi suona ancora la voce negli orecchi): “A pranzo in casa Gerini ci si va con la cravatta bianca o con la cravatta nera?” - Bianca -  gli risposero: e allora, appoggiato al caminetto, cominciò a tirarsi i baffi verso il labbro inferiore, borbottò due o tre volte quasi piagnucolando: “O Santo Iddio, o Santo Iddio, la cravatta bianca!” poi ammutolì, e di lì a cinque minuti se ne andò frettoloso com’era venuto. Non me ne seppi dar pace, che un celebre poeta …dicesse quel che avrei potuto dire anch’io… e fu impressione così viva e durevole quella che …le simpatie per il Giusti non si destarono se non tardi, non potevo prendere in mano il volume de’ suoi versi, senza riveder lui a quel caminetto tirarsi muto i mustacchi, né gli sapevo perdonare quella mia delusione infantile. »
Più tagliente il giudizio di Martini sul padre del poeta, Domenico Giusti: “…ricordo  - scrive Martini nel vol. 4 dell’Epistolario – d’averlo visto io, giovinetto, scodinzolare grigio vestito, ilare e svelto per la piazza di Monsummano; e ricordo le meraviglie altrui nel mirare tanta giocondità di spirito in chi aveva perduto da poco l’unico figliuolo maschio…”  - era quest’uomo, che pure in Montecatini esercitava un notevole potere,   un  - “ peccatore impenitente, vagheggino ripicchiato e straniato, argomento alle facezie e alle canzonette popolari, [che] morì serenamente lasciando scarso rimpianto  fra i conterranei e nel guardaroba centodieci paia di pantaloni.”
Tuttavia Martini malgrado la non eccessiva simpatia personale per la famiglia Giusti, dà un giudizio sostanzialmente positivo dell’indole creativa del poeta superando la precedente critica risorgimentale che, valutando negativamente l’involuzione politica degli ultimi anni del Giusti, finiva per svalutarne tutta l’opera.
La linea interpretativa martiniana è per la totale autonomia del prodotto artistico rispetto ai limiti politico-morali del Giusti. Più che giudicare Martini cerca di esaminare e capire l’autore inserendolo in un preciso contesto socio-culturale. In tal senso la critica martiniana precorre lo storicismo critico più recente sul Giusti dal  Sapegno, al Baldacci, al Nicoletti.
Ma torniamo all’Eritrea: di quell'esperienza ci rimangono i quattro volumi del Diario Eritreo pubblicati postumi.
Scriverà allora acutamente Martini: «"In Africa ci siamo andati, senza saper bene il perché, ci siamo voluti restare per consenso quasi universale, quando era tempo di venirsene con danno minore; ora io, che pur così ripetutamente e vanamente domandai si richiamassero dalle coste del mar Rosso i nostri soldati, io, per il primo, confesso che il dar le spalle al mar Rosso oggi non è più possibile, senza disdoro infinito, perpetuo. Ma, se col mutare degli eventi e de' tempi, muta la ragione politica, la ragione morale rimane qual era; ed io non so rassegnarmi a credere che vi siano due giustizie, una bianca e una nera, due diritti, uno bianco e uno nero; nella pochezza mia non arrivo ad intendere con che cuore noi che per secoli patimmo e lamentammo il giogo, andiamo ora ad imporlo. Ma noi siamo eclettici: richiediamo l'Isonzo e pigliamo il Mareb. Quando mi provo a dirlo, mi rispondono con un'alzata di spalle: "coteste sono idee da secolo decimottavo". Me ne rincresce per il decimonono." »
Tuttavia, studi recenti hanno sfrondato alcuni miti, sorti prima e durante il fascismo, circa il Governatorato di Martini. Martini in realtà non fu né il salvatore della colonia Eritrea contro un governo (Giolitti) che avrebbe voluto disfarsene, né il suo valorizzatore economico, nè il colonialista "buono" particolarmente attento alle esigenze dei nativi e nemmeno il precursore dell'Impero fascista.
Arrivato in Eritrea appena dopo la disfatta di Adua, Martini facendo ricorso al buonsenso di conservatore illuminato che sempre lo contraddistinguerà, salvò (e conservò) il salvabile, opponendosi alle velleità dei militari che cercavano l'incidente per riaprire sconsideratamente la partita e lasciò sostanzialmente la strada aperta per successive espansioni.
Nel 1908, ormai insofferente del suo ruolo "africano", riuscì a tornare, anche contro la volontà di Giolitti, in Italia.
Per inciso tra Giolitti e Martini non corse mai buon sangue: troppo "politico" e rigidamente "piemontese" l'uno, gran signore toscano l'altro, intellettuale rigoroso e colto, ma anche ironico e disincantato, tanto da definire, ad esempio, lo statista di Mondovì come "un carabiniere travestito da guardia di pubblica sicurezza in borghese". Giolitti gliela farà poi pagare nel 1919 rifiutandosi di nominarlo senatore.
Deluso della politica e dai politici, Martini si ritira a Monsummano nella quiete della sua prediletta Valdinievole per attendere ai suoi studi ed ai suoi scritti.
Alla vigilia della prima guerra mondiale torna alla politica avvicinandosi decisamente allo schieramento conservatore: Ministro delle Colonie nel Governo di Antonio Salandra (1853-1931), fu risoluto interventista a fianco della Francia. Una scelta forse dettata da:  spirito irredentista risorgimentale, (Isonzo-Mareb), dalla predilezione per la cultura francese, ma, concretamente motivata da mire egemonistiche verso l'area balcanica e centroeuropea. (Stefanik)
Da questi anni nasce il Diario 1914-1918 opera importantissima dal punto l’altra pubblicazione di vista storico, ed anche molto interessante per la spontaneità della stesura in quanto non destinata nelle sue intenzioni  alla pubblicazione.
Curata da Gabriele De Rosa verrà edita dalla Mondadori nel 1966 affiancando l’altra opera postuma, l’Epistolario 1860-1928, già uscita, sempre per Mondatori, nel 1934. 
Il suo Diario ci rivela, tra l'altro, che in sostanza furono Martini e Salandra a decidere a Frascati il 17 settembre 1914 la linea di condotta che porterà all'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria.
I turbolenti anni del dopoguerra, l'esplodere della lotta di classe, videro la fine del vecchio sistema politico fondato sul prestigio personale (collegio uninominale) sancita anche in Valdinievole, nelle elezioni del 1919, le prime tenutesi col "proporzionale",  dalla sconfitta degli esponenti più rappresentativi del liberalismo: Martini non venne rieletto e amareggiato tornò a vita privata.
Preso di mira, anche fisicamente,  come "guerrafondaio" Martini, amaramente si diffonde nelle sue lettere sulle accuse che nella “sua” Val di Nievole gli vengono rivolte ed in una lettera a Laura Cipriani del 12 settembre 1919 scrive:  “…i miei si sono sempre adoperati per il bene di questo paese, io l’ho rappresentato in parlamento per 42 anni, e credo non indegnamente, ciò che di meno male ho scritto è tutto datato da Monsummano; qui ho deposto i più cari ricordi, qui sono sepolti mio padre a mia madre; qui mi preparavo ad istituire un  museo civico a raccogliere cimeli paesani, i manoscritti del Carli, del Giusti e via dicendo…Tutto mi potevo aspettare fuor che vedermi  questo paese nemico, le gente ostentare il negato saluto e gridare contro di me vituperi”  ed aggiunge nella lettera d’addio ai suoi elettori datata 15 novembre 1919: "della guerra tutti soffrimmo…la guerra è calamità e,  se voluta significa averla desiderata,  codesta è calunnia…la guerra fu voluta e iniziata dalla Germania e dall’Austria,   per noi fu una necessità.” 
Sono tempi questi che il Martini, per sua natura portato al disincanto ed alla moderazione, alieno da qualsiasi estremismo non  sa, né forse vuole comprendere o approvare, ma in fondo era facile per lui, che era ricco, essere moderato e superiore alle passioni, ma di ciò lui stesso se ne rendeva conto come abbiamo visto nella lettera alla Pigorini-Beri.
Ulteriormente allarmato per la svolgersi degli avvenimenti durante il "biennio-rosso", Martini, come del resto altri esponenti della classe politica liberale del tempo, finì per vedere nell'affermarsi del fascismo l'unico argine al "disordine" montante.
Non risulta che aderisse al movimento, come il Regime dopo la sua morte volle far apparire, ma ne fu un autorevole fiancheggiatore ed il fascismo gli fu riconoscente nominandolo Senatore nel marzo 1923 e Ministro di Stato nel 1927 ed a chi gli chiedeva quali vantaggi comportasse quest’ultima carica Martini rispondeva: “…vantaggi? Uhm: ho il diritto di essere chiamato Eccellenza; lo scompartimento riservato e di questo non potrò usufruirne perché in treno  non ci vo più, e poi una cosa della quale certo usufruirò …i funerali a spese dello Stato.”
Gli ultimi anni di Martini tuttavia furono infatti dedicati allo studio piuttosto che all’attività politica. Ormai anziano, rifugiatosi nella sua villa di Monsummano, trascorse le giornate nella sua ricchissima biblioteca raccontando cinquant'anni di vicissitudini personali (e di storia del Paese) nelle due raccolte di Confessioni e ricordi, ritenute dalla critica la sua opera migliore di grande memorialista.
In quest’opera matura Martini mostra in pieno  uno stile leggero e agevole (ottenuto nel tempo, come ebbe a dire, “per energica conquista”) in cui possono pienamente e piacevolmente dispiegarsi la sua naturale ironia e arguzia, il garbo, il tutto unito ad una preziosa dovizia d’informazioni.
Deliziosi i suoi quadretti sul ministro granducale Baldasseroni, da lui definito “Sua Baldanza Eccellenzoni”, su Leopoldo II, sul Guadagnoli, e su Salvagnoli, Rossini, Depretis,  sui i giorni del 27 aprile,  sulla fiacca volontà dei… volontari… soldati toscani partiti per il Nord per partecipare alla Guerra del ’59, ecc.
Scrisse anche altre opere, tornò a lavorare sull’Epistolario del Giusti  ed intraprese, in questa che possiamo considerare come una “ricerca del tempo perduto", anche l'opera di ordinamento delle carte appartenute alla sua famiglia. Fra il materiale polveroso pervenutogli - al quale nessuno mai, a quanto pare, tentò prima di lui di dare un ordine - vi erano perfino documenti risalenti alla fine del XVI secolo; potè scoprire anche la storia d’amore con Stendhal della zia Giulia Rinieri de’ Rocchi, cugina e moglie dello zio Giulio. 
L'arco cronologico di questo archivio si chiude proprio con la morte di Martini avvenuta a Monsummano il 24 aprile del 1928.
Gli eredi vendettero la sua ricchissima biblioteca, ricca di circa 15.000 volumi e 12.000 opuscoli, giornali toscani, edizioni originali, cinquecentine, codici etiopici, alla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia che l'affidò alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia alla quale con il 1971 furono formalmente donata e di cui adorna, anche nelle sue suggestive strutture in legno, di recente ricondotte alla disposizione originale, la Sala V.
         
                    
                        Carlo Onofrio Gori                                      






 Conferenza tenuta da Carlo O. Gori a Monsummano Terme il 27.02.2003








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