Rispondo
alla domanda n. 8 di Romano Masoni su “Il Grandevetro”.
Destino
vuole che la nostra rivista “Il Grandevetro” prenda nome da quel “Grande
Vetro”, opera di Duchamp che sembrò indicare (e ancora così è sentito, ed è
proprio per questo che noi della rivista ce ne siamo appropriati) luminosi
sentieri, di rinascite e liberazioni…”rivoluzioni”?
Il
pezzo di Davide Graeber che qui sotto vi presento, termina con la “triste
parabola”, dello stesso Duchamp: abbandona l’attività artistica e si dedica
agli scacchi…è una “controrivoluzione”?
In
mezzo ci stanno le domande di Romano.
Me
ne libero subito, ma positivamente: perché aderisco alla sua LINEA DI
RESISTENZA, in virtù della quale definisce colui che “per fortuna continua a
rimanere, in dialettica disperata, PITTORE DELLA SENSIBILITA’ “ come appartenente a quella “parte emarginata
e indifesa, dell’Arte contemporanea, quella eroica, esistenziale, la parte…più
rivoluzionaria”.
Io
ho eliminato il “FORSE” che è nel testo di Masoni e che è aggiunto per
discrezione. Quest’artista “CERTO” non si dedicherà mai agli scacchi!
Ma
ecco il testo di Graeber (in “La rivoluzione che viene”, Manni ed.): “E’ una percezione comune, non erronea, che
almeno dagli anni venti il mondo dell'arte vive una sorta di crisi
istituzionale permanente. Si potrebbe anche dire che ciò che chiamiamo
"mondo dell'arte" sia diventato la gestione continua di questa crisi.
La crisi ovviamente riguarda la natura dell'arte. L'intero apparato del mondo
dell'arte - critici, giornali, curatori, proprietari di gallerie, agenti, riviste
patinate e persone che vi si aggirano attorno e ne discutono in vecchie
fabbriche divenute caffè chic nei quartieri borghesi ... - si potrebbe dire che
esiste solo per cercare una risposta ad una singola domanda: cos'è l'arte? O,
per essere più precisi, per trovare alcune risposte diverse da quella più
ovvia, che è: "qualsiasi cosa possa essere convincente perché la gente
molto ricca la compri".
Questa
è dunque la natura della crisi permanente. In termini di politica economica,
naturalmente, il mondo dell'arte è divenuto in gran parte un'appendice del
capitale finanziario. Questo non significa affermare che acquisisce la natura
di capitale finanziario (in molti modi, nelle sue forme, valori e pratiche, è
quasi esattamente l' opposto), ma vuol dire che si adegua alle sue dinamiche,
dato che le gallerie e gli studi si concentrano e proliferano nelle metropoli
globalizzate ai margini delle aree in cui vivono gli uomini d'affari, da New
York a Londra, da Basilea a Miami.
L'arte
contemporanea esercita un fascino particolare sugli uomini d'affari, credo
perché permette una sorta
di corto circuito nel normale processo di valore-creazione. È un ambito in cui
le relazioni che normalmente intercorrono tra il mondo del proletariato della
produzione materiale e le ariose vette del capitale immaginario essenzialmente
saltano.
A
quegli stessi uomini d'affari piace anche circondarsi di artisti, di persone
che sono sempre impegnate a fare cose - una sorta di proletariato immaginario
messo insieme dal capitale finanziario,
che
produce oggetti unici per la maggior parte costruiti con materiali molto poco
costosi, oggetti che gli uomini
d'affari possono battezzare, consacrare, attraverso il denaro, trasformandoli
in arte e mostrando così
la propria abilità a convertire i materiali più umili in oggetti preziosi,
preziosi molto più dell'oro.
Non è mai chiaro, in questo contesto, chi stia
prendendo in giro chi. Tutti - artisti, mercanti, critici, collezionisti -
continuano a venerare la vecchia concezione romantica novecentesca secondo cui
il valore dell'opera d'arte emerge direttamente dall'unicità del genio
dell'artista. Ma nessuno di loro ci crede veramente. Molti artisti sono profondamente cinici riguardo al proprio
lavoro. I critici e i commercianti sono consapevoli, spesso con poco disagio,
del fatto che il valore di un'opera d'arte è in qualche modo una loro
creazione; i collezionisti, a loro volta, sembrano molto meno a proprio agio
con la consapevolezza che alla fine sono i loro soldi che rendono gli oggetti
opere d'arte.
Ciascuno
è ben disposto a rigirarsi tra le mani questo dilemma, rendendolo parte della
stessa natura dell'arte. Ho un amico, uno scultore, che una volta ha realizzato
una scultura consistente semplicemente nelle parole "HO BISOGNO DI
SOLDI", e poi ha provato a venderla a dei collezionisti per pagarsi
l'affitto. La scultura è stata arraffata all'istante. Sono i collezionisti che
afferrano al volo questo tipo di sciocchezze, oppure gli artisti stanno
rivelando la loro abilità a recitare la parte di Marcel Duchamp?
Duchamp,
dopo tutto, giustificava la sua famosa Fontana, il suo tentativo di comprare un
comune orinatoio e piazzarlo in una mostra d'arte, dicendo che anche se lui non
aveva realizzato o modificato l'oggetto, lo aveva "scelto" e quindi
trasformato in un concetto. Credo che le reali implicazioni di questo gesto gli
siano state chiare solo più tardi. Se è così, si spiegherebbe perché alla fine
egli abbandonò completamente la produzione artistica e trascorse gli ultimi
quarant' anni della sua vita a giocare a scacchi, una delle poche attività che,
come sottolineò talvolta, non si possono mercificare.
Credo
che questo sia un dilemma che tutti affrontano quando tentano di mantenere una
certa autonomia rispetto al mercato. Coloro che ricercano altre forme di valore
possono provare ad isolarsi dal mercato. Possono giungere ad una sorta di
accordo o anche di simbiosi. O possono finire nella situazione in cui ciascuna
delle due parti cerca di raggirare l'altra.
Tuttavia,
ciò che davvero voglio sottolineare è che questi spazi di autonomia non sono
meno reali.
(Io
mi riservo quest’ultimo commento. Il gesto di Duchamp, astraendo dalle sue –
non so se tristi non so se comiche – personali conclusioni, è stato in tutto il
secolo trascorso e a tutt’oggi, il gesto dell’ARTE TUTTA NELLA SUA AUTONOMIA, giudicando ben s’intende all’ingrosso
e trascurando le eccezioni. Ciò non va dimenticato.
Il
gesto è stato fianco a fianco reinterpretato e spalleggiato dai critici
compiacenti e dalle migliori intelligenze, in buona o cattiva fede qui non
importa: importa la complicità.
E
per finire consegnata trionfalisticamente QUEST’ARTE nelle mani rapaci dei
profittatori e al pubblico dei danarosi committenti – che l’articolo su
riportato bene illustra.
Il
tutto ha prodotto quel risultato tra l’imbarazzante e il surreale, per chi
almeno si mette un po’ fuori, che è sotto l’occhio di molti; e che ha preso
l’aspetto per molti altri dell’incontestabilità e della perennità perfino –
diciamo piuttosto di una certa rassicurante stabilità…
Un
magnifico esempio delle fallacie e degli spettri che amano sovente far nido
nelle menti umane. Grottesco ma perfino grandioso nella sua globalizzante
spettacolarità
Ma
bisognerà frattanto pur reagire, come suggerisce Graeber e lo stesso Masoni.
Prima
o poi però, e ci sarà da ridere, dovrà scoppiare la bolla? o verrà piuttosto un
lento ravvedimento e l’inevitabile declino? mi pare l’ipotesi più probabile.
Rimarranno
“i pittori della sensibilità” e sarà la vittoria.
Mauro Raddi
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