lunedì 1 aprile 2013

Mauro Raddi. Dibattito sull'Arte oggi con particolare riguardo...alla Pittura


Meglio dedicarsi agli scacchi?

Rispondo alla domanda n. 8 di Romano Masoni su “Il Grandevetro”.
Destino vuole che la nostra rivista “Il Grandevetro” prenda nome da quel “Grande Vetro”, opera di Duchamp che sembrò indicare (e ancora così è sentito, ed è proprio per questo che noi della rivista ce ne siamo appropriati) luminosi sentieri, di rinascite e liberazioni…”rivoluzioni”?
Il pezzo di Davide Graeber che qui sotto vi presento, termina con la “triste parabola”, dello stesso Duchamp: abbandona l’attività artistica e si dedica agli scacchi…è una “controrivoluzione”?
In mezzo ci stanno le domande di Romano.
Me ne libero subito, ma positivamente: perché aderisco alla sua LINEA DI RESISTENZA, in virtù della quale definisce colui che “per fortuna continua a rimanere, in dialettica disperata, PITTORE DELLA SENSIBILITA’ “  come appartenente a quella “parte emarginata e indifesa, dell’Arte contemporanea, quella eroica, esistenziale, la parte…più rivoluzionaria”.
Io ho eliminato il “FORSE” che è nel testo di Masoni e che è aggiunto per discrezione. Quest’artista “CERTO” non si dedicherà mai agli scacchi!
Ma ecco il testo di Graeber (in “La rivoluzione che viene”, Manni ed.):  “E’ una percezione comune, non erronea, che almeno dagli anni venti il mondo dell'arte vive una sorta di crisi istituzionale permanente. Si potrebbe anche dire che ciò che chiamiamo "mondo dell'arte" sia diventato la gestione continua di questa crisi. La crisi ovviamente riguarda la natura dell'arte. L'intero apparato del mondo dell'arte - critici, giornali, curatori, proprietari di gallerie, agenti, riviste patinate e persone che vi si aggirano attorno e ne discutono in vecchie fabbriche divenute caffè chic nei quartieri borghesi ... - si potrebbe dire che esiste solo per cercare una risposta ad una singola domanda: cos'è l'arte? O, per essere più precisi, per trovare alcune risposte diverse da quella più ovvia, che è: "qualsiasi cosa possa essere convincente perché la gente molto ricca la compri".
Questa è dunque la natura della crisi permanente. In termini di politica economica, naturalmente, il mondo dell'arte è divenuto in gran parte un'appendice del capitale finanziario. Questo non significa affermare che acquisisce la natura di capitale finanziario (in molti modi, nelle sue forme, valori e pratiche, è quasi esattamente l' opposto), ma vuol dire che si adegua alle sue dinamiche, dato che le gallerie e gli studi si concentrano e proliferano nelle metropoli globalizzate ai margini delle aree in cui vivono gli uomini d'affari, da New York a Londra, da Basilea a Miami.
L'arte contemporanea esercita un fascino particolare sugli uomini d'affari, credo perché permette una sorta di corto circuito nel normale processo di valore-creazione. È un ambito in cui le relazioni che normalmente intercorrono tra il mondo del proletariato della produzione materiale e le ariose vette del capitale immaginario essenzialmente saltano.
A quegli stessi uomini d'affari piace anche circondarsi di artisti, di persone che sono sempre impegnate a fare cose - una sorta di proletariato immaginario messo insieme dal capitale finanziario,
che produce oggetti unici per la maggior parte costruiti con materiali molto poco costosi, oggetti che gli uomini d'affari possono battezzare, consacrare, attraverso il denaro, trasformandoli in arte e mostrando così la propria abilità a convertire i materiali più umili in oggetti preziosi, preziosi molto più dell'oro. 
 Non è mai chiaro, in questo contesto, chi stia prendendo in giro chi. Tutti - artisti, mercanti, critici, collezionisti - continuano a venerare la vecchia concezione romantica novecentesca secondo cui il valore dell'opera d'arte emerge direttamente dall'unicità del genio dell'artista. Ma nessuno di loro ci crede veramente. Molti artisti sono  profondamente cinici riguardo al proprio lavoro. I critici e i commercianti sono consapevoli, spesso con poco disagio, del fatto che il valore di un'opera d'arte è in qualche modo una loro creazione; i collezionisti, a loro volta, sembrano molto meno a proprio agio con la consapevolezza che alla fine sono i loro soldi che rendono gli oggetti opere d'arte.
Ciascuno è ben disposto a rigirarsi tra le mani questo dilemma, rendendolo parte della stessa natura dell'arte. Ho un amico, uno scultore, che una volta ha realizzato una scultura consistente semplicemente nelle parole "HO BISOGNO DI SOLDI", e poi ha provato a venderla a dei collezionisti per pagarsi l'affitto. La scultura è stata arraffata all'istante. Sono i collezionisti che afferrano al volo questo tipo di sciocchezze, oppure gli artisti stanno rivelando la loro abilità a recitare la parte di Marcel Duchamp?
Duchamp, dopo tutto, giustificava la sua famosa Fontana, il suo tentativo di comprare un comune orinatoio e piazzarlo in una mostra d'arte, dicendo che anche se lui non aveva realizzato o modificato l'oggetto, lo aveva "scelto" e quindi trasformato in un concetto. Credo che le reali implicazioni di questo gesto gli siano state chiare solo più tardi. Se è così, si spiegherebbe perché alla fine egli abbandonò completamente la produzione artistica e trascorse gli ultimi quarant' anni della sua vita a giocare a scacchi, una delle poche attività che, come sottolineò talvolta, non si possono mercificare.             
Credo che questo sia un dilemma che tutti affrontano quando tentano di mantenere una certa autonomia rispetto al mercato. Coloro che ricercano altre forme di valore possono provare ad isolarsi dal mercato. Possono giungere ad una sorta di accordo o anche di simbiosi. O possono finire nella situazione in cui ciascuna delle due parti cerca di raggirare l'altra.
Tuttavia, ciò che davvero voglio sottolineare è che questi spazi di autonomia non sono meno reali.
(Io mi riservo quest’ultimo commento. Il gesto di Duchamp, astraendo dalle sue – non so se tristi non so se comiche – personali conclusioni, è stato in tutto il secolo trascorso e a tutt’oggi, il gesto dell’ARTE TUTTA NELLA SUA AUTONOMIA,           giudicando ben s’intende all’ingrosso e trascurando le eccezioni. Ciò non va dimenticato.
Il gesto è stato fianco a fianco reinterpretato e spalleggiato dai critici compiacenti e dalle migliori intelligenze, in buona o cattiva fede qui non importa: importa la complicità.
E per finire consegnata trionfalisticamente QUEST’ARTE nelle mani rapaci dei profittatori e al pubblico dei danarosi committenti – che l’articolo su riportato bene illustra.
Il tutto ha prodotto quel risultato tra l’imbarazzante e il surreale, per chi almeno si mette un po’ fuori, che è sotto l’occhio di molti; e che ha preso l’aspetto per molti altri dell’incontestabilità e della perennità perfino – diciamo piuttosto di una certa rassicurante stabilità…
Un magnifico esempio delle fallacie e degli spettri che amano sovente far nido nelle menti umane. Grottesco ma perfino grandioso nella sua globalizzante spettacolarità
Ma bisognerà frattanto pur reagire, come suggerisce Graeber e lo stesso Masoni.
Prima o poi però, e ci sarà da ridere, dovrà scoppiare la bolla? o verrà piuttosto un lento ravvedimento e l’inevitabile declino? mi pare l’ipotesi più probabile.
Rimarranno “i pittori della sensibilità” e sarà la vittoria.

                                                                                                                             
                                                                                       
                               
                                 
                                     Mauro Raddi      



























                                                

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